LO SGUARDO MITE E DOLCE DI
SANTA GIUSEPPINA BAKHITA
Accostarsi a santa Bakhita significa accettare di entrare con lei nel mondo dell’essenzialità. Non quella che relativizza tutto, rendendo il lettore incapace di cogliere la bellezza della vita nelle sue pieghe più nascoste, bensì quella di un sorriso spirituale che sa vedere tutto nella luce tanto da trasmetterla con lo sguardo. Nonostante il suo giungere a Schio da una terra lontana e sconosciuta, per una storia che l’aveva incatenata alla schiavitù, Bakhita ha per tutti uno sguardo mite, dolce, buono, sofferto, consapevole, profondo, luminoso.
Così ne descriveva il sorriso una sorella che con lei visse per anni nella stessa comunità canossiana di Schio. Così la ritrasse il famoso Bruner, fotografo di persone illustri che, dopo averne conosciuta la “storia Meravigliosa” pubblicata nel 1931, chiese di immortalarne la figura, battendo la stessa via dell’iconografia che nel volto rivela la luce interiore della persona santa.
Ed ancora così la vedono i pellegrini che sostano a guardarla nel suo vero ritratto, effige scelta per offrirla alla venerazione dei fedeli il 1° ottobre del 2000 giorno della sua canonizzazione da parte di Giovanni Paolo II a Roma.
Chi arriva a Schio, non appena entra nella casa canossiana, si imbatte ancor oggi in tanti volti scuri; sono immagini giunte dal lontano paese di Bakhita, per gli scledensi sono memoria della sua presenza in portineria per accogliere bimbi piccoli o grandi che ovunque; anche per le strade di Schio, ancora la ricordano e ne parlano insegnando al visitatore come raggiungere la Chiesa della Sacra Famiglia che ne custodisce le spoglie.
“Mi vegno chi ogni giorno, a visitar la me Madre Moretta, perché non son miga bona de ciamarla Bakhita, par mi a xe ‘a madre Moretta’ e basta (Vengo qui ogni giorno a visitare la mia Madre Moretta; non mi riesce di chiamarla Bakhita, per me è la Madre Moretta e basta)”.
Non è insolito essere introdotti a Bakhita da queste testimonianze raccontate in Chiesa o un po’ dovunque, per strada, al mercato, nei negozi, negli ambulatori, al telefono, da persone che l’hanno incontrata nell’infanzia o già ventenni.
Le sorelle canossiane che attendono al santuario di Bakhita ne raccolgono spesso i ricordi personalissimi. Sia che si tratti di marachelle o di episodi di indigenza, lo sguardo di Bakhita tutto sembra impreziosire per manifestare dove stanno il giusto e l’amore, pur nella fragilità.
Un giorno, ci ha raccontato una signora, decisi con un’amica di andare a scuotere la pianta dei cachi per farli cadere. Una ragazza sorda che aiutava Bakhita in cucina se ne accorse e ci mandò incontro un cagnolino che iniziò ad abbaiare, al che entrambe ce la demmo a gambe. Bakhita ci vide, ma non si scompose. Quando più avanti le passai vicino mi guardò, non ebbe rimproveri, solo disse “el Paron sa”. “Solo il Signore sa”… ciò che accade nei cuori”, non toccava a lei giudicare, poteva trattarsi di fame, o di monellerie, “solo il Signore sa”! Questa la certezza di Bakhita il cui sguardo salvava sempre.
Quella lezione offerta con il tratto della misericordia è durata ed ha portato frutto per tutta la vita.
La Madre Moretta raccontava che come schiava non c’era giorno passato senza piaghe, provocate dalle punizioni che lasciavano dei segni sul suo corpo, sapeva per esperienza che si trattava di punizioni causate dagli sbagli altrui: per questo non si ribellava, il padrone umano non poteva sapere ciò che solo Dio conosce, ecco perché imparò a chiamarlo ‘el Paron’! Esprimeva così il suo comprendere l’amore di Gesù che portò su di sé il dolore degli altri, per non metterlo in circolazione con accuse, morendo in croce, ci evitò le conseguenze del peccato, dando la sua vita ci salva, solo Lui è, dunque, l’unico “Paron”! Questa la sua teologia, essenziale, fondamentale, la sua “via, verità e vita”.
Il linguaggio di Bakhita è semplice: parlava in dialetto veneto, aveva dimenticato tutto del suo paese, il suo stesso nome; i rapitori la chiamarono “Fortunata”, “Bakhita” nell’idioma arabo.
“Raccontaci una storia” le chiedevano i bambini che per la loro innocenza sanno vedere quanto loro si dice. E Bakhita raccontava la sua storia; a volte i ragazzi venivano dai paesi vicini accompagnati dai loro parroci, per sentire una suora santa e loro ascoltavano, cercando di capire e vedere tutto, di questo fanno memoria ancor oggi molte persone anziane che vengono a visitarla. Spesso Bakhita faceva loro vedere le cicatrici sul braccio per far toccare quel tatuaggio che ne minacciò la vita, lasciandola divorare dalla sete, febbre e dolore. C’era chi temeva che con le sue mani scure sporcasse le lenzuola o i lini dell’altare, mentre altri provavano a capire se era di cioccolato. Durante un temporale, in cui nella notte le luci scomparvero, si sentì dire in un corridoio “sei così nera che non ti posso vedere” e lei, di rimando, con il suo fare faceto rispose “ma senza la luce sei nera anche tu!” Ad un sacerdote che, non vedendola per la poca luce, le chiedeva di scostare il velo per darle la Comunione, disse “mi son fatta così (io sono fatta così)” ed ecco, brillò il suo sorriso e l’equivoco fu subito svelato. Le fu chiesto se avesse preferito essere bianca piuttosto che nera, l’interrogativo non la riguardava e disse semplicemente “par mi va ben tutto queo che fa el Paron (per me va bene tutto quello che fa il Signore)”.
Una luce aveva accompagnata Bakhita ad uscire dal folto della foresta, preservandola dalle fauci di belve affamate; lei guardava lo scintillio delle stelle e si chiedeva chi ne fosse l’autore.
Quando le fu dato in dono il crocefisso da Illuminato Checchini, amministratore della famiglia presso cui dimorava a Zianigo, guardandolo provava in cuore qualcosa che non sapeva dire, per cui lo contemplava nascostamente, chiedendosi perché il suo cuore ne fosse tanto colpito.
Fu ai Catecumeni di Venezia, dove giunse con Mimmina, la piccola a cui accudiva, che la sua mente cominciò a comprendere l’ondata di tenerezza provata nel guardare a Gesù. La luce che l’aveva invasa divenne gioia, forza di libertà, coraggio di difendere il fulgore dell’amore più puro con la bontà che si sprigionava dal cuore. Lei, che nei mercati di schiavi sperava sempre di riconoscere la sorella maggiore rapita prima di lei, ora si sentiva riconosciuta, cercata in modo così misterioso da Dio stesso; vedeva la sua vita come la trama e l’ordito su cui tessere l’amore per chi era entrato nel suo cuore come unico Signore e vero Padrone.
Scelse Gesù e lasciò tutto ciò che aveva imparato ad amare. C’era ancora dolore nel farlo, ma questa volta era il prezzo non della discesa negli inferi del peccato del mondo, ma della risalita al cielo per darsi tutta al suo Creatore.
Dopo il Battesimo che l’inondò di luce divina, eccola sognare le nozze celesti. Chi le aveva donato il piccolo crocefisso l’attendeva a casa tra i sui figli, attorno alla sua mensa, ma ora Bakhita era libera e scelse di essere “figlia della luce” nella sua obbedienza religiosa. Le sorelle dicevano che quando si obiettava a qualche richiesta dei superiori, lei – semplicemente – non capiva. Non fu mai connivente con l’ingiustizia, la subì, ma non la inflisse; la schiavitù l’aveva forgiata e resa malleabile come l’oro, splendeva in rettitudine. Se cattivi padroni l’avevano fatta giungere dove il Signore l’aspettava, come poteva non accadere lo stesso, nella vita religiosa, accogliendo il volere di chi aveva il dovere di guidare le sorelle al Signore? Ecco la sua sapienza!
Durante il giubileo nell’ottobre del 2000, a Vicenza, il Vescovo disse che Bakhita, a differenza di altri santi, non ebbe a soffrire per il suo istituto che, invece, l’accolse come un dono. Ascoltando simili riflessioni, noi sorelle canossiane divenimmo consapevoli che questa è certamente una prova ulteriore della sua santità, perché anche lei soffrì a causa di chi la circondava, ma non ne parlò: questa è la sua grandezza. Come Gesù, aveva fatto morire in sé l’insorgere della ribellione; in lei è Isacco, docile nelle mani del Padre Abramo; in lei è Geremia, sedotto dal fuoco divino che gli bruciava il cuore; in lei sono Giuseppe e Maria, docili esecutori di una volontà celeste che chiedeva loro di accogliere ed amare un bimbo. Ed i bimbi in Bakhita lo riconobbero, poiché lei era rimasta una di loro nella purezza del cuore. Racconta un missionario che quando Bakhita era ammalata ed incapace di camminare, servendo la S. Messa come chierichetto, per ben due volte ebbe la sensazione di trovarsi di fronte ad una santa, perché nel ricevere la comunione si illuminava tutta e “sembrava sciogliersi d’amore per Gesù”.
Sembrò essere stata edificata per accogliere Bakhita la chiesa della Sacra Famiglia, i cui lavori, interrotti per quasi quarant’anni, furono conclusi per le preghiere rivolte al Gesù Bambino di Praga e solennemente benedetta a meno di un anno dal suo arrivo a Schio. La luminosità della rotonda, sormontata da un’abside che ne diffonde la luce, sorprende il visitatore e lo invita ad accostarsi all’urna della santa ‘Moretta’ posta sotto l’altare maggiore, che con il suo biancore la pone in evidenza, per accogliere, con la serenità del suo sguardo, le preghiere accorate di chi la invoca, sempre lieta di rivolgere a Dio la sua riconoscenza per le tante grazie di luce che Egli concede a chi lo cerca in umiltà.
Carissima M. Bakhita, grazie.