LIBERI PERCHE’ “FIGLI DI DIO”
4a Domenica di Pasqua /B
Gv 10,11-18
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
CAMMINO MENDICANDO AMORE
Prima della stella del mattino,
nell’ineffabile generazione del Figlio,
là noi tutti eravamo.
«Figlio mio, ecco i tuoi fratelli».
«Padre mio, per tuo amore,
ecco la carne per il sacrificio».
«Scendi, Figlio, dal trono regale,
rivesti l’immagine dello schiavo,
e sii in tutto simile a loro».
«Sì, Padre, un corpo mi hai dato
da vergine Madre,
ed ora cammino, mendicando amore».
Il tuo gregge è disperso,
lupi stanno in agguato,
mercenari lo pasturano.
O Gesù, buon Pastore,
portaci ai silenziosi pascoli
nella pace del tuo Regno.
Amen.
IL VANGELO VISSUTO DA BAKHITA
Gv 10,11.14-16.18
«Se avesse il temperamento battagliero dell’Apostolo delle Genti […], l’odierna festeggiata potrebbe anche lei citare a testimonio il suo non comune passato: “… Sono stata razziata, battuta fustigata, inseguita: ho intravisto la libertà, fui ripresa, legata in ceppi ed in catena […]
Questo oltre cinquant’anni fa; e tutto questo mezzo secolo è stato speso nell’adempimento del dovere, in serena povertà e ubbidienza. Quante bambine, nei tanti anni di permanenza a Schio, non ebbero, all’ingresso dell’Istituto, con quella sua voce gutturale, esotica, mentre gli occhi lampeggiavano felici, il primo saluto da lei, che […] fu battezzata “la Madre Moretta”.
[…] Ecco, non sempre i bianchi sono andati dai neri: stavolta è una di loro che da cinquant’anni predica a noi, civilissimi bianchi dalle mani imbrattate di sangue, e ci insegna che il segreto della felicità è nel nascondimento del dovere compiuto, che la pace è nel perdono, che è degno dei nostri sforzi solo ciò che è giusto, grande, buono. Uscendo da quest’oasi di pace, la vita ci riprende nel suo vortice, e quello che si è visto diventa d’un colpo lontanissimo come il ricordo di una cosa veduta in sogno.»
(Bollettino Parrocchiale, Schio, dicembre 1943, “Un cinquantenario di carità. La Madre Moretta”,
Positio, 4b, pag. 328-330)